ISTINTO E INCONSCIO

1919

L'argomento di questo simposio riguarda un problema di somma importanza non solo per la biologia, ma anche per la psicologia e la filosofia. Però, se dobbiamo intraprendere la discussione dei rapporti tra istinto e inconscio, è essenziale cominciare con una chiara definizione dei termini.

Quanto alla definizione di istinto, desidero sottolineare l'importanza della legge del «tutto o del niente», enunciata da Rivers. Infatti mi sembra che questa particolarità dell'attività istintuale rivesta un particolare significato per l'aspetto psicologico della questione. Ovviamente mi devo limitare a questo solo aspetto, perché non mi sento competente a trattarne sotto il lato biologico. Però, se tento di definire psicologicamente l'attività istintuale, sento di non potermi fondare esclusivamente sul criterio della reazione «del tutto o del niente» di Rivers, e questo per le seguenti ragioni: Rivers definisce questa risposta come un processo la cui intensità non ha alcun rapporto di proporzionalità con le condizioni che lo provocano. Si tratta ai una risposta avente un'intensità sua propria, identica in ogni circostanza, e quindi non proporzionata allo stimolo scatenato. Ma quando prendiamo in esame i processi psicologici allo scopo di stabilire se ve ne siano alcuni, la cui intensità è del tutto sproporzionata nei confronti dello stimolo, ne troviamo un gran numero in tutti gli individui, come, per esempio, emozioni sproporzionate, impressioni e impulsi esagerati, intenzioni spinte troppo oltre, e altri elementi del genere. Ne consegue che non è possibile classificare tutti questi processi nella categoria dell'istinto, per cui dobbiamo metterci alla ricerca di un diverso criterio.

Nel linguaggio corrente si fa un grandissimo uso della parola istinto. Parliamo di azioni «istintive» per indicare una modalità di comportamento il movente e lo scopo della quale non sono pienamente coscienti, essendo tale azione imposta da un'oscura necessità interiore. Tale caratteristica è già stata messa in luce da un vecchio scrittore inglese, Thomas Reid, che dice:

«Intendo con istinto un impulso naturale verso determinate azioni, in assenza di un fine determinato, di un'intenzione volontaria e della consapevolezza di ciò che si sta facendo»1. Dunque l'azione istintiva è caratterizzata dal Y inconsapevolezza del retrostante movente psicologico, in contrasto con i processi strettamente coscienti che si distinguono per la continuità cosciente dei motivi. L'azione istintiva appare come un fatto psichico più o meno improvviso, quasi un'interruzione nella continuità della coscienza. Per questo è sentita come necessità interiore; ed è infatti questa la definizione di istinto secondo Kant2.

Conseguentemente l'attività istintiva deve essere classificata tra i processi specificamente inconsci, accessibili alla coscienza solo tramite i loro risultati. Però se volessimo accontentarci di questo modo di concepire l'istinto, ben presto ci accorgeremmo della sua insufficienza, in quanto si limita a distinguere l'istinto dai processi coscienti definendolo inconscio. Se, invece, prendiamo in esame i processi psichici nel loro complesso, scopriamo che è impossibile classificarli tutti come istintivi, anche se, nel linguaggio corrente, non si trovano tali distinzioni. L'intensa paura scatenata dalla vista inaspettata di un serpente può essere a buon conto definita istintiva, perché non differisce da quella che si osserva nelle scimmie. Le qualità più tipiche dell'atto istintivo sono appunto l'uniformità del fenomeno e la regolarità della sua comparsa. Secondo una giusta osservazione di Lloyd Morgan, scommettere su una reazione istintiva sarebbe tanto insulso quanto scommettere che domani sorgerà il sole. D'altra parte, può anche darsi che un individuo sia colto regolarmente da paura tutte le volte che incontra una gallina perfettamente innocua.

Per quanto in questo caso il meccanismo della paura sia tanto inconscio quanto l'istinto, cionondimeno i due processi vanno tenuti distinti. Nel caso della paura dei serpenti, abbiamo un processo avente una finalità e che si manifesta generalmente; la seconda evenienza, se è abituale, non è un istinto bensì una fobia, perché si manifesta in singoli individui e non è un fatto generale. Esistono molte altre coazioni inconsce di questo tipo (per esempio pensieri ossessivi, ossessioni musicali, idee e umori improvvisi, emozioni impulsive, depressioni, stati di angoscia, ecc.). Sono fenomeni osservabili in soggetti sia normali che patologici. Poiché si manifestano solo sporadicamente e non si ripetono con regolarità, devono essere tenuti distinti dai processi istintuali, anche se il loro meccanismo psicologico sembra corrispondere a quello di un istinto. Possono persino rispettare la legge del «tutto o del niente», come si osserva facilmente in casi patologici. In psicopatologia sono frequenti casi di questo genere nei quali un dato stimolo è seguito da una risposta bene definita e relativamente sproporzionata confrontabile con una reazione istintiva.

Tutti questi processi devono essere distinti da quelli istintuali. L'attributo di istintuale spetta solo a quei processi inconsci ed ereditari, che si manifestano uniformemente e regolarmente. Nel contempo essi devono recare i segni di un'indefettibile necessità, cioè possedere una natura riflessa del tipo indicato da Herbert Spencer. Questi processi differiscono dai semplici riflessi senso-motorii solo per la maggiore complessità. Per questo William James definisce l'istinto, e non a torto, «un semplice impulso eccito-motorio, conseguente alla preesistenza di un determinato "arco riflesso" nei centri nervosi». Gli istinti hanno in comune con i riflessi l'uniformità e la regolarità oltre all'inconsapevolezza dei motivi.

Il problema dell'origine e dell'acquisizione degli istinti è estremamente complicato. Il fatto di essere sempre ereditari non ne spiega in alcun modo l'origine, perché non fa altro che trasporre il problema sui nostri progenitori. E molto diffusa l'opinione che gli istinti traggono origine da attività individuali, diventate generali in un secondo tempo, ripetute frequentemente. È una spiegazione accettabile in quanto constatiamo ogni giorno come attività imparate a fatica diventino a poco a poco automatiche grazie a una pratica costante. Ma se consideriamo i meravigliosi istinti presenti nel mondo animale, dobbiamo riconoscere che talora il fattore apprendimento è del tutto assente. Vi sono dei casi in cui è impossibile ammettere l'esistenza di un processo di apprendimento o di esercizio. Prendiamo per esempio l'istinto incredibilmente perfezionato che guida la tignola della yucca {Pronubayucca- sella)1 nei processi di propagazione della specie. I fiori di yucca rimangono schiusi per una sola notte. La tignola prende il polline di un fiore e ne forma una pallottolina. Poi va a visitare un altro fiore, ne apre il pistillo tagliandolo, depone le sue uova in mezzo agli ovuli del vegetale e quindi inserisce la pallottola di polline nell'apertura imbutiforme del pistillo. L'insetto esegue questa complessa operazione una sola volta nella vita.

Casi del genere difficilmente si spiegano con l'ipotesi dell'apprendimento e della pratica. Perciò sono state recentemente proposte altre spiegazioni, tratte dalla filosofia di Bergson, che dà maggiore importanza al fattore intuizione. L'intuizione è un processo inconscio dato che provoca la comparsa nella coscienza di un contenuto precedentemente inconscio, come un'idea subitanea o un'ispirazione. È un processo non dissimile dalla percezione con la differenza che qui tale percezione, diversamente da quanto avviene con l'attività sensoriale cosciente o con l'introspezione, è inconscia. È per questo che parliamo dell'intuizione come di un atto istintivo di comprensione. Si tratta di un processo analogo all'istinto con la differenza che questo è un impulso, avente un certo scopo, destinato all'espletamento di un atto alquanto complesso, mentre l'intuizione è la comprensione inconscia, anch'essa avente un determinato fine, di una situazione alquanto complessa. Dunque, in un certo senso, l'intuizione è il contrario dell'istinto, non più né meno stupefacente di questo. Però non dobbiamo mai dimenticare che quello che per noi è complicato o persino stupefacente non è affatto tale per la Natura, anzi è assolutamente ordinario. Noi abbiamo una costante tendenza a proiettare sulle cose le nostre difficoltà di comprensione, definendole complesse, mentre in realtà sono semplicissime né sanno nulla dei nostri problemi intellettuali.

Una trattazione del problema dell'istinto che non faccia riferimento al concetto di inconscio sarebbe incompleta perché proprio i processi istintivi rendono indispensabile il concetto ausiliario di inconscio. Definisco l'inconscio come la totalità dei fenomeni psichici che sono privi della qualità della coscienza. Questi contenuti psichici potrebbero altrettanto bene essere chiamati «subliminali», partendo dal presupposto che qualsiasi contenuto psichico, per diventare cosciente, deve possedere un certo livello energetico. Un contenuto cosciente scompare al di sotto della soglia con tanto maggiore facilità quanto più basso diventa il suo valore. Ne consegue che l'inconscio è il ricettacolo di tutti i ricordi perduti e di tutti i contenuti che sono ancora troppo deboli per diventare coscienti. Questi contenuti sono il prodotto di un'attività inconscia che dà anche vita ai sogni. Accanto a questi dobbiamo mettere anche tutte le rimozioni più o meno intenzionali di pensieri e sentimenti dolorosi. Chiamo «inconscio personale» la somma di tutti questi contenuti.

Ma, oltre e sopra a questo, si trovano anche delle qualità inconsce non acquisite individualmente, bensì ereditate, per esempio gli istinti e gli impulsi a compiere azioni dettate dalla necessità in assenza di una motivazione cosciente. In questo strato più «profondo» troviamo anche gli a priori, forme innate di intuizione, ossia gli archetipi della percezione e dell'apprendimento, che sono i necessari determinanti a priori di tutti i processi psichici. Come gli istinti costringono l'uomo a una modalità di esistenza specificamente umana, così gli archetipi impongono uno schema specificamente umano alle sue modalità di percezione e apprendimento. Gli istinti e gli archetipi insieme costituiscono l'«inconscio collettivo». Lo definisco «collettivo» perché, a differenza dell'inconscio individuale, non è costituito da contenuti personali e più o meno unici, ma da quelli la cui validità è universale e regolare. L'istinto è un fenomeno fondamentalmente collettivo, vale a dire universale, la cui manifestazione è regolare, e che non ha niente a che vedere con l'individualità. Gli archetipi hanno questa qualità in comune con l'istinto e sono anch'essi fenomeni collettivi.

Secondo me il problema dell'istinto non può essere trattato da un punto di vista psicologico senza prendere in considerazione gli archetipi perché, alla base, essi si determinano a vicenda. Però la discussione del problema è estremamente difficile a causa della grandissima divergenza di opinioni sull'importanza dell'istinto in psicologia umana. Così, secondo William James, l'uomo pullula di istinti, mentre altri li riducono a un numero scarsissimo di processi appena distinguibili dai riflessi, come certi movimenti compiuti dal neonato, certe reazioni particolari degli arti, della laringe, l'impiego della mano destra e la modulazione di suoni sillabici. Secondo me questa limitazione è eccessiva, pur essendo tipica della psicologia umana in genere. Soprattutto, dobbiamo ricordare sempre che, trattando degli istinti umani, parliamo di noi stessi e, senza dubbio, non siamo scevri da pregiudizi.

La nostra posizione è molto più vantaggiosa quando ci accingiamo all'osservazione dell'istinto negli animali e nei primitivi anziché in noi stessi. Questo dipende dal fatto che abbiamo preso l'abitudine di esaminare le nostre azioni cercandone la spiegazione razionale, ma non è affatto sicuro, anzi è quanto mai improbabile, che le nostre spiegazioni siano consistenti. Non occorre un intelletto sovrumano per veder trasparire, attraverso la tenuità di molte nostre razionalizzazioni, i veri motivi delle azioni, ossia gli istinti incoercibili che si trovano alla loro base. A causa di queste razionalizzazioni artificiali potremmo avere l'impressione di non essere guidati dagli istinti, ma da motivi coscienti. Non voglio dire, naturalmente, che l'uomo non sia riuscito, con un puntiglioso addestramento, a trasformare parzialmente gli istinti in atti della volontà. L'istinto è stato addomesticato, però rimane sempre il motivo fondamentale. Non c'è dubbio che siamo riusciti ad avviluppare moltissimi istinti in spiegazioni razionali fino al punto di non saper più riconoscere i motivi originari sotto veli talmente numerosi. In questo modo ci sembra di non possedere più alcun istinto, ma se applichiamo al comportamento umano la legge, sproporzionata, del «tutto o niente», enunciata da Rivers, osserviamo numerosissimi casi di risposte esagerate.

In effetti, l'esagerazione è una caratteristica umana universale, per quanto ciascuno di noi si adoperi con ogni mezzo per dimostrare i motivi razionali delle sue reazioni. Le argomentazioni valide non vengono mai meno, però il fatto dell esagerazione rimane. Per quale ragione un uomo non fa o dice, non dà o prende, in proporzione a quanto è necessario, o ragionevole e giustificabile in una determinata situazione, ma, spesse volte, esagera per eccesso o per difetto? Proprio perché in lui si mette in moto un processo inconscio che segue il suo corso senza l'aiuto della ragione per cui finisce col risultare insufficiente o eccessivo rispetto al valore della motivazione razionale. Questo fenomeno è talmente uniforme e regolare che non possiamo non definirlo istintivo, per quanto a nessuno, in questa situazione, piaccia riconoscere la natura istintiva del suo comportamento. Quindi sono propenso a ritenere che l'influenza dell'istinto sul comportamento umano sia di gran lunga superiore a quanto non si pensi generalmente e che, sotto questo aspetto, tendiamo con estrema frequenza e facilità a emettere giudizi falsi, sempre in conseguenza di un'istintiva esagerazione del punto di vista razionale.

Gli istinti sono tipiche modalità di azione e quindi abbiamo a che fare con un istinto in tutti i casi in cui osserviamo modalità di azione e reazioni costanti e ricorrenti con regolarità, indipendentemente dal fatto che i motivi siano o non siano coscienti.

Come è lecito chiedersi se l'uomo sia dotato di parecchi o di pochi istinti, così possiamo porci la domanda, mai sollevata finora, se sia dotato di parecchie o di poche forme primordiali, o archetipi, di reazione psichica. In questo caso urtiamo nella stessa difficoltà di cui sopra: siamo talmente assuefatti a manipolare concetti convenzionali e ovvi che non ci rendiamo più conto di quanto essi si fondino su modalità archetipiche di percezione. Come gli istinti, anche le immagini primordiali sono state oscurate dall'enorme sviluppo del pensiero. Come certe correnti biologiche attribuiscono all'uomo solo pochi istinti, così la teoria della conoscenza riduce gli archetipi a poche categorie di comprensione, limitate sotto il profilo logico.

Però in Platone si dà un'enorme importanza agli archetipi, quali idee metafisiche, «paradigmi» o modelli, mentre gli oggetti reali sono trattati alia stregua di semplici copie di questi modelli ideali. La filosofia medievale, dai tempi di S. Agostino — dal quale ho preso l'idea di archetipo — fino a Malebranche e a Bacone, segue ancora le orme di Platone. Però nella filosofia scolastica troviamo l'idea che gli archetipi siano immagini naturali impresse nella mente umana che la aiutano nella formulazione dei giudizi. Così Herbert of Cherbury dice: «Gli istinti naturali sono l'espressione di facoltà presenti in ogni uomo normale per mezzo delle quali le nozioni comuni attinenti alla natura intrinseca delle cose, come la causa, i mezzi e i fini di queste, il bene, il male, il bello, il piacevole, ecc. ...vengono assimilate indipendentemente dal pensiero discorsivo».

Da Cartesio a Malebranche in poi, il valore metafisico dell 'idea o archetipo va gradatamente deteriorandosi. L'idea diventa un «pensiero», una condizione gnoseologica interna, come dice chiaramente Spinoza: «Con "idea" intendo un concetto della mente che questa forma per il fatto di essere una sostanza pensante». Infine Kant riduce gli archetipi a un numero limitato di categorie della conoscenza. Schopenhauer ha portato ancora più innanzi il processo di semplificazione, mentre ha attribuito agli archetipi un significato quasi platonico.

Da questo nostro abbozzo, meno che sommario, possiamo intrawedere ancora una volta l'opera di quello stesso processo psicologico che copre gli istinti sotto il mantello dei motivi razionali e trasforma gli archetipi in concetti razionali. Sotto questo travestimento l'archetipo è a mala pena riconoscibile. Eppure il modo in cui l'uomo si raffigura interiormente il mondo, è, nonostante tutte le varianti particolari, tuttora così uniforme e costante quanto le sue azioni istintive. Come siamo stati costretti a postulare il concetto di un istinto che determina e regola le nostre attività coscienti, così, per spiegare la costanza e regolarità delle nostre percezioni, dobbiamo ricorrere a un analogo concetto di un fattore che definisce le modalità delle percezioni stesse. Questo è l'elemento che chiamo archetipo o immagine primordiale, e che potrebbe essere adeguatamente definito come la percezione che l'istinto ha di se stesso, ossia come l'autoritratto dell'istinto, esattamente come la coscienza è la percezione interiore dei processi vitali oggettivi. Come l'apprendimento cosciente imprime alle nostre azioni il carattere e la direzione, così l'apprendimento inconscio tramite l'archetipo determina il carattere e la direzione dell'istinto. Se definiamo «raffinato» un dato istinto, allora l'«intuizione», che mette in azione l'istinto, ossia, in altri termini, l'apprendimento tramite l'archetipo, deve essere incredibilmente «esatta». Quindi la tignola della yucca deve avere in sé, e così è in realtà, un'immagine della situazione che ne fa «scattare» l'istinto. È questa immagine che le permette di «riconoscere» il fiore della yucca e la sua struttura.

Il criterio della reazione del «tutto o del niente», proposto da Rivers, ci è stato di aiuto nel ravvisare l'opera degli istinti a tutti i livelli della psicologia umana e, similmente, il concetto di immagine primordiale potrebbe svolgere una funzione analoga a questa per quanto riguarda l'attività dell'apprendimento intuitivo. L'attività intuitiva si osserva molto facilmente tra i primitivi. Tra essi ritroviamo costantemente alcune immagini caratteristiche e alcuni motivi che rappresentano i fondamenti delle loro mitologie. Si tratta di immagini autoctone che ricorrono con molta regolarità; ovunque si osserva l'idea di un potere o sostanza magica, di spiriti e delle loro imprese, di eroi e delle loro leggende. Nelle grandi religioni mondiali ravvisiamo il perfezionamento di queste immagini e, nello stesso tempo, la loro progressiva incrostazione da parte di forme razionali. Esse compaiono addirittura nelle scienze naturali, quale fondamento ai taluni indispensabili concetti ausiliari, come energia, etere e atomo. In filosofia, Bergson ci offre un esempio di riesumazione di un'immagine primordiale con il suo concetto di «durée créatrice», già ritrovabile in Proclo e, nella sua forma originale, in Eraclito.

La psicologia analitica si occupa quotidianamente, sia nel normale che nel patologico, di perturbamenti della percezione cosciente provocati da una confusione di immagini archetipiche. Le azioni sproporzionate, dipendenti dall'interferenza dell'istinto, sono provocate da modalità percettive intuitive determinate dagli archetipi, che, con tutta probabilità, portano a impressioni eccessivamente intense e spesso deformate.

Gli archetipi sono modalità tipiche di appercezione, e tutte le volte che osserviamo modalità di appercezione costanti e ricorrenti con regolarità, vuol dire che ci troviamo di fronte a un archetipo, indipendentemente dalfatto che Usuo carattere mitologico sia o non sia riconosciuto.

L'inconscio collettivo è formato dalla somma degli istinti e dei loro correlati, gli archetipi. Ciascun individuo, come possiede degli istinti, possiede anche un complesso di immagini archetipiche. La prova più lampante è data dalla psicopatologia delle turbe mentali che sono caratterizzate da un'irruzione dell'inconscio collettivo. Tale è il caso della schizofrenia, in cui si osserva di frequente l'emergenza di impulsi arcaici insieme con immagini inconfondibilmente mitologiche.

Secondo me non si può dire che cosa venga per prima: la percezione di una situazione o l'impulso ad agire. Mi sembra che siano entrambi aspetti della stessa attività vitale, che dobbiamo considerare come processi distinti esclusivamente ai fini di una migliore comprensione.

Come il concetto, ora in disuso, dell'etere, l'energia e l'atomo sono intuizioni primitive. Una forma primitiva dell'energia è il mana, mentre una formulazione primitiva dell'atomo è quella di Democrito, oltre alle «scintille animiche» degli aborigeni dell'Australia.